giovedì 4 luglio 2013

Il Cie di Milo. Lo zoo per esseri umani.

Giuseppe Casucci (Coord. Nazionale Dipartimento Politiche Migratorie UIL) Piero Soldini (Responsabile Nazionale Immigrazione CGIL) Angela Scalzo (Segretario Generale SOS Razzismo Italia)
Lo scorso 29 giugno una delegazione internazionale ha visitato il Cie di Milo: un gigantesco zoo per esseri umani, simbolo della risposta europea alle migrazioni dal Mediterraneo. E’ il mondo oscuro voluto dal pacchetto sicurezza e dal reato di clandestinità. E delle violazioni dei diritti alla persona in nome della “sicurezza”. Milo (Trapani), 29 giugno 2013 - A vederlo potrebbe sembrare uno zoo ad alta sicurezza, costruito per contenere bestie feroci e tenerle ben lontane dai pacifici visitatori. Eppure, dentro le gabbie non vi sono fiere (e sarebbe comunque crudele tenerle lì), ma esseri umani la cui unica “colpa” è di essere entrati nel Belpaese senza autorizzazione. Sono arrivati spesso attraversando il Mare Nostrum e rischiando di annegare: dal 1988 ad oggi, 19.000 dei loro compagni di sventura non ce l’hanno fatta: donne, bambini, vecchi e giovani. Hanno pagato migliaia di dollari agli scafisti, facendo debiti di cui la famiglia si è fatta garante. Il loro sogno: trovare una nuova vita, una nuova speranza di futuro in Europa. Ma in Italia il sogno si è infranto o trasformato in incubo: quello del centro di espulsione dove i diritti arrivano col contagocce. La frazione di Milo, è una località nei pressi di Trapani, da cui dista 4 chilometri in direzione sud-est, alle falde del Monte Erice. Intorno c’è il nulla: quasi nessuna popolazione, scarsa vegetazione – specialmente attorno al metallico centro di contenimento degli immigrati, simbolo dell’Europa che sa mostrare i muscoli, anche se solo con i poveracci. Il primo impatto, per chi viene da fuori, è freddo e brutale: la struttura è quasi completamente metallica e comunica a chi vi entra un gelido messaggio solo parzialmente mitigato dai colori variopinti delle inferriate (giallo e marrone e ocra in prevalenza): da qui dentro non si scappa! A Milo vengono rinchiuse le persone che sono arrivate irregolarmente sul territorio del nostro Paese, ma anche chi abbia vissuto in Italia, magari da anni, e venga trovato privo di permesso oppure con un documento scaduto oltre i termini previsti dalla legge. In questo caso, un giudice (anche onorario) decreta l’espulsione del malcapitato e, a meno che qualcuno non lo consigli di fare una richiesta di asilo (la domanda sospende il rimpatrio), egli rischia in molti casi di essere rinchiuso in uno dei 13 Centri di identificazione ed espulsione oggi operativi in Italia, dove inizia una procedura che in meno della metà dei casi si conclude con un’espulsione effettiva. I costi (e gli sprechi) di questa procedura sono altissimi per lo Stato, dal punto di vista finanziario, ed incalcolabili dal punto di vista umano. Eppure le norme internazionali impongono il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona. Senza contare che le direttive Europee indicano l’uso dei Centri di trattenimento come ultima chance da usare, dopo che ogni altra forma di identificazione sia risultata impossibile e solo dopo aver offerto all’immigrato irregolare l’alternativa del ritorno volontario assistito, anche per evitare l’espulsione. Ma dove sta scritto che basta una direttiva e che venga applicata nel modo indicato? A decine finiscono in questi centri, nessuno dice loro che possono optare per il ritorno volontario, nessuno gli indica il supporto legale e i passi giusti da fare per una minima tutela. Spesso chi si occupa di loro non parla la loro lingua e i mediatori culturali, quando ci sono, non vi sono fondi per pagarli. Parlando con alcuni dei reclusi abbiamo chiesto spesso: . La risposta era uno sguardo confuso: non sapevano nemmeno di cosa stessimo parlando. In posti come questi ci capita di tutto: anche chi è già stato identificato e non c’è nessun motivo che faccia 18 mesi di vera galera senza aver commesso un vero reato. Anche chi vive in Italia da anni e non più alcun rapporto con la sua patria d’origine. Anche chi chiede asilo: perché se lo chiede dopo che la procedura di espulsione è avviata, non verrà mandato al CARA (dove è libero di entrare ed uscire), ma resterà in quella gabbia per gente considerata pericolosa. Siamo arrivati a Milo con un autobus verso le 10.30 del mattino, provenienti da Palermo. La nostra delegazione è composta da esponenti di EGAM, una rete internazionale antirazzista, da diversi mediatori culturali, da alcuni sindacalisti e da due parlamentari ( PD e SEL). La burocrazia ci ha bloccato a lungo prima di poter entrare, malgrado una lista di persone fosse già stata autorizzata in anticipo dalla prefettura. La cosa si è complicata anche per il fatto che alcuni dei passeggeri dell’autobus non facevano parte della lista e questo, ovviamente, ha prodotto un intoppo all’ingresso. Dopo lunghe trattative, la direzione accetta che una decina di persone non autorizzate possano essere aggiunte al seguito dei due parlamentari: un’altra decina rimane fuori. Inizia un tira e molla tra i funzionari: quanta libertà di movimento ci può essere concessa? Chi controlla i visitatori che parlano altre lingue? Quanto ci si può avvicinare? La presenza dei parlamentari, comunque, fa gioco e dopo un po’ ci lasciano entrare. All’interno della struttura, sorgono altre quattro aree abitate dai reclusi e pesantemente recintate e guardate a vista notte e giorno. Aree tra di loro separate, isolate dietro cancelli in acciaio alti almeno quattro metri e divise da larghe vie incessantemente pattugliate da militari. Al di fuori, oltre ai sistemi di vigilanza elettronica, militari bardati in equipaggiamento antisommossa, ci guardano circospetti mentre mostriamo il desiderio di avvicinarci alle cancellate per parlare con chi sta dietro le sbarre. Sono sempre pronti alla bisogna, anche perché i 102 stranieri ivi reclusi sono davvero disperati e non sognano altro che di scappare da quella che – senza dubbio – è solo una prigione. Loro si sentono reclusi, anche se i funzionari – con un eufemismo davvero fuori luogo – li definiscono “ospiti”. La nostra delegazione è stata divisa in due tronconi separati e avviata lungo i percorsi interni alle aree recintate. Ogni tentativo di avvicinarsi alle cancellate, dove è già presente l’altro troncone della nostra delegazione, viene negato e veniamo invitati un po’ sbrigativamente a spostarci per “ragioni di sicurezza”. E’ questo un leit motiv, che verrà utilizzato da guardie, militari e funzionari per tutta la durata della visita. Mentre il nostro gruppo sfila tra gli spazi che separano le quattro enormi gabbie, da dietro le inferriate volti in prevalenza scuri si affacciano a guardarci, le braccia e le mani protese verso di noi, mentre ci gridano e tentano di raccontare la loro sfortunata traversia individuale. Hanno solo quelle occasioni (la visita di delegazioni ufficiali) per tentare di far filtrare la propria storia. Vogliono poter parlare con noi: raccontare il proprio individuale percorso di migrazione, comunicare nomi e numeri di cellulare propri, di parenti, della famiglia in patria; vogliono denunciare le dure condizioni di detenzione, chiedere aiuto. Ma non è così facile: i funzionari che ci accompagnano sono restii a farci avvicinare: l’imperativo naturalmente, la loro parola magica rimane la nostra “incolumità personale” da garantire. Ma da dietro quelle gabbie non vediamo volti ostili, ma solo esseri umani che lanciano una disperata richiesta di aiuto. Tra i funzionari e vigilanti, alcuni appaiono nervosi e si mostrano poco propensi al dialogo. Altri, invece, mostrano gentilezza e un po’ di compassione per le persone recluse. In particolare, ci è sembrata apprezzabile la disponibilità delle assistenti sociali, pronte a mostrarci le schede di alcuni reclusi, correggendo il loro racconto, ma anche raccontando la loro storia e indicando per alcuni la possibilità di soluzioni positive. Superati alcuni sbarramenti, entriamo nell’area più interna al centro. Al di là delle cancellate, si intravvedono grandi strutture metalliche – dall’apparenza magazzini - che presumibilmente contengono gli alloggi dove i reclusi vivono confinati. Non ci è permesso di entrare all’interno ed anche la richiesta che una piccola delegazione degli “ospiti” possa uscire a parlare, viene sbrigativamente rifiutata. Alle nostre rimostranze, la risposta è sempre la stessa: “sappiamo noi come gestire la sicurezza delle persone in questo luogo”. Il funzionario che accompagna la delegazione su questo è categorico. Non siamo dunque in grado di testimoniare sulla qualità degli ambienti dove gli immigrati vivono e ci dobbiamo basare solo su quanto raccontato da alcuni di loro. Molte di quelle persone sono condannate a rimanere lì confinate, anche fino a 18 mesi (limite massimo previsto dalla direttiva europea sui rimpatri) ed a restare nella prigione di Milo – o in altri simili centri - come detenuti, senza aver commesso alcun reato tranne quello di immigrazione irregolare, abominio giuridico inventato nel 2009 dal Governo di centro destra. Pochi escono liberi, almeno la metà di loro vengono espulsi. Altri iniziano un percorso che in molti casi si perde nell’incertezza del futuro. Il motivo dipende anche dai Paesi di provenienza. Spesso, per difendersi, questi stranieri rifiutano di farsi identificare e non è sempre possibile avere la certezza del paese d’origine, A volte vengono chiamati funzionari delle ambasciate africane a tentare di identificare almeno la provenienza. Molto spesso, poi, i paesi nostri dirimpettai nel Mediterraneo, rifiutano di accettare gli stranieri espulsi, adducendo che non è certo siano loro connazionali. Ed infatti molti provengono dall’Africa centrale e il Nord Africa è stato solo un’area di transito. Il risultato è un palleggiamento di responsabilità e l’allungamento dei tempi di detenzione nei CIE. I costi per lo Stato italiano, naturalmente, sono esorbitanti ma vengono pagati all’altare della sicurezza, o agli interessi delle molte parti interessate all’affare. Mentre ci avviciniamo, alcuni migranti ci gridano da dietro ai cancelli: ; ; ; ; . Debbono averlo detto a tutti, ma senza grandi risultati. Eppure continuano a gridarlo: non hanno altre chance. Dopo aver girato intorno ad una delle strutture, ci viene finalmente permesso di avvicinarci ad una cancellata. Subito, decine di reclusi si avvicinano per parlarci. Si tratta, in maggioranza, di immigrati africani (alcuni tunisini e marocchini, anche se non mancano quelli di provenienza sub – sahariana). Ci sono anche altre minori provenienze. Samir (lo chiameremo così per tutelarne l’identità) ha 21 anni ed è serbo di origine. Dietro le sbarre appare un ragazzo magro e slanciato dai capelli castano scuri ed un volto curato. E’ arrivato in Italia con i genitori nel 1992, quando aveva sei mesi e la famiglia era dovuta scappare dalla guerra. Non si sa se per ignoranza o trascuratezza, i genitori non lo hanno mai regolarizzato in Italia e lui è vissuto privo di permesso di soggiorno per oltre un ventennio. Ha frequentato le scuole da migrante irregolare e allo stesso modo ha accudito a cure mediche. Quando è stato fermato dalla polizia, non ha saputo spiegare la completa assenza di documenti ed è stato rinchiuso nel CIE in attesa di accertamenti, o di possibile espulsione. ci chiede sconsolato: . Ci racconta che ha altri fratelli, loro sì sistemati: anzi con la cittadinanza italiana. Alla nostra domanda sul perché loro sì e lui no, ci da’ una versione confusa di litigi tra i genitori e di assenza di dialogo con il padre. La storia sembra inverosimile o quanto meno illogica. Più tardi, però, l’assistente ci conferma il succo del racconto. E’ una giovane di circa 30 anni, che lavora tutti i giorni presso il CIE per dare assistenza e consigli alle persone lì trattenute. Precisa, incidentalmente, di non ricevere lo stipendio da almeno 3 mesi ma di non poter abbandonare persone tanto sfortunate. “il racconto, per quanto inverosimile – precisa – risulta vero. Quest’uomo sta da vent’anni in Italia senza permesso”. Aggiunge che Samir non risulta aver mai commesso reati e che per questo motivo, gli è stato consigliato di fare domanda di protezione umanitaria. L’assistente è molto ottimista e crede che la Commissione gli darà presto un permesso, in modo che il giovane possa uscire: poi avrà un anno di tempo per cercarsi un lavoro. Più complicata la storia di Kamal. Lui è un uomo sulla quarantina, marocchino. Ha folti capelli ricci e neri come i due baffoni color ebano. Stava per sposarsi con una italiana, ci racconta ed avevano già fissato l’appuntamento al Comune. Ma non ci è mai arrivato in quanto la polizia l’ha arrestato per immigrazione irregolare. Lui infatti era arrivato, via mare, su uno dei viaggi della fortuna. Per imbarcarsi ha fatto un debito con gli scafisti ed è la sua famiglia a dover rispondere, se lui non paga. Ha lavorato in nero nelle campagne, spesso 12 ore di fatica per 20 o 25 euro. Poi ha conosciuto una donna siciliana ed ha convissuto per anni con lei. Dice di aver avuto un primo permesso di soggiorno e che le cose stavano per sistemarsi. Ma il permesso era scaduto e lui è andato in questura per rinnovarlo e presentarsi al matrimonio con i documenti in regola. , ci racconta ancora stupito. Perché arrestarmi se stavo per sposarmi?>. Secondo le informazioni delle assistenti sociali, comunque, l’accusa è che il matrimonio fosse solo un falso espediente per procurarsi un permesso. Poi è il turno di Ahmed (anche questo nome di fantasia). Si fa largo tra gli altri cercando di raggiungerci. E’ tunisino e non è tra quelli che ha attraversato il Mediterraneo ai tempi della primavera araba. Lui è arrivato via mare cinque anni fa. In Sicilia convive con un’italiana da alcuni anni. Ha 29 anni, pelle abbronzata e cappelli nero ebano. Era riuscito a regolarizzarsi e viveva di lavori saltuari: un po’ facendo il manovale in edilizia, un po’ in agricoltura nella raccolta delle arance. Un anno fa gli scade il permesso: presenta domanda di rinnovo, ma dopo alcuni mesi arriva un rifiuto. Non è chiara la motivazione e lui si rivolge ad un avvocato per fare ricorso. Un giorno però, la poca fortuna rimastagli lo abbandona: viene fermato da una pattuglia della polizia. In tasca ha solo la ricevuta del permesso rifiutato. Ce n’è abbastanza per farlo rinchiudere a Milo. , gli chiediamo perplessi. E lui: “l’avvocato mi ha detto che il ricorso non blocca la procedura di espulsione”. “E poi, aggiunge quasi rassegnato, la convivenza con un’italiana non conta nulla ai fini della legge”. Drammatica anche la testimonianza di Laachir. Lui è nato in Marocco, è mussulmano e appare molto scoraggiato: ha scontato dieci anni di carcere per aver ucciso un connazionale durante una lite. Appena terminata la pena, è stato prelevato e portato al CIE di Milo: obiettivo dell’Italia è di liberarsi di lui. “Non è giusto, si lamenta: io ho pagato il mio debito con lo Stato italiano. Perché non darmi un’altra possibilità?”. Cosa ti succederà in patria, gli chiediamo. “La famiglia dell’uomo che ho ucciso, aspetta solo il mio ritorno per farmela pagare”. “Lì il sangue si paga con il sangue”, aggiunge. Lo ha detto alle autorità, ma questo non è servito a fermare la procedura di espulsione. L’ultima persona con cui siamo riusciti a parlare è Hamdilash. Dice di essere sposato con una donna italiana ma di essere poi stato arrestato ed aver scontato due anni di carcere a Castelvetrana. Finita la pena è stato portato a Milo, in attesa di espulsione. La cosa ci appare inverosimile e cerchiamo di approfondire, ma proprio in quel momento tre reclusi nell’area dirimpetto al cancello in cui stiamo, decidono di dare avvio ad una protesta. Si arrampicano con agilità è scavalcano l’inferriata alta quasi quattro metri. Vendono subito isolati da un gruppo di militari in tenuta anti sommossa. Noi veniamo allontanati sbrigativamente, ma gridiamo ai funzionari di non fare del male a quelle persone. Mentre veniamo spintonati verso l’uscita, ripetiamo ai responsabili che avremmo denunciato ogni forma di violenza ai reclusi. Più tardi a due di loro viene permesso di raggiungerci nell’androne vicino all’uscita. Non hanno subito violenza, per fortuna. Chiedono di avere il supporto di avvocati delle associazioni, non quelli forniti dal CIE. Il funzionario lo rassicura che potranno avere il supporto legale che desiderano, ma che non dipende da lui se sono rinchiusi in quel posto, senza aver commesso reati. “Dipende dal giudice – ripete suadente al detenuto – davanti ai molti testimoni: “se lui me lo ordina, io ti faccio uscire anche subito”. “Non è colpa nostra se sono trattati come carcerati – dice poi rivolgendoci a noi”. Ma allora di chi è la colpa per tante violazioni dei diritti della persona? Uno di loro si avvicina e chiede sorridendo: . Cerchiamo di spiegare che ci preme sapere come vengono trattati. Lui sorride ancora e risponde: . Alle nostre proteste si gira per andarsene, ma ha un ultimo commento: . E’ una domanda a cui nessuno di noi aveva risposta. Il video di repubblica sugli abusi agli ospiti nel Cie di Milo

domenica 20 febbraio 2011

sabato 31 luglio 2010

Immigrazione sui giornali, si sgonfia l'emergenza


L'immigrazione è vista sempre meno come "emergenza" sui giornali italiani. L'indagine realizzata dall'Osservatorio Carta di Roma

Si e' sgonfiata, dal 2008 ad oggi, l'emergenza sicurezza legata all'immigrazione come tema trattato dai giornali nazionali. Sembra essere in atto una "normalizzazione" nell'approccio a questo argomento per cui sono sempre meno frequenti i richiami all'emergenza sicurezza e all'allarme sbarchi e gli accostamenti tra immigrazione e criminalità. E' quanto emerge dalla ricerca intitolata "Il tempo delle rivolte", realizzata dall'Osservatorio Carta di Roma e presentata presso la sala stampa estera dal presidente della Fnsi, Roberto Natale, dal professor Mario Morcellini e da Laura Boldrini, dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Un calo dell'attenzione che, secondo gli autori dello studio, e' dovuto soprattutto a una diminuita insitenza sul tema da parte dei soggetti politici e delle istituzioni. Prendendo in considerazione un numero campione di uscite dei principali quotidiani da gennaio ad aprile del 2010, Avvenire si impone per la piu' ampia copertura del tema immigrazione-cronaca-sicurezza con 79 titoli su un totale di 120 titoli di cronaca di prima pagina. Le peggiori perfomance toccano invece a Il Giornale con 45 titoli su 124 e a Libero con 38 su 128. Numeri in discesa anche rispetto allo stesso periodo del 2008. Analizzando 1540 notizie raccolte nel 2008, i ricercatori hanno scovato 85 notizie buone delle quali un terzo erano semplicemente neutre mentre i restanti due terzi potevano essere definite vere e proprie buone notizie. "Si tratta - ha spiegato Mario Morcellini - di segnali di una diversa attenzione e di sguardi che cercano di non essere riduttivi rispetto a un fenomeno complesso e a volte contradditorio. Segnali che però - ha concluso - andrebbero ulteriormente sostenuti e stimolati attraverso iniziative di sensibilizzazione e formazione nello spirito della Carta di Roma.
(Fonte: Stranieri-in-italia)

sabato 9 gennaio 2010

E a Rosarno si è aperto il vaso di Pandora

di Domenico Naso (FareFuturo)

Bando ai buonismi e alle cose non dette: in Italia esiste la schiavitù. E più precisamente a Rosarno, cittadina di quindicimila abitanti nella piana di Gioia Tauro. Questo piccolo lembo di Calabria ospita ben cinquemila extracomunitari, che ne fanno, secondo un rapporto di Medici senza frontiere, la terza zona in Italia per densità di stranieri in rapporto alla popolazione residente dopo Napoli e Foggia. Ventitré nazionalità diverse per un popolo di disperati che affolla le campagne. Raccolgono agrumi e pomodori, gli immigrati di Rosarno, svolgendo un lavoro massacrante che gli italiani non vogliono più fare. Poco male, se non fosse che le condizioni di lavoro e di vita di questa gente sono ben al di là del limite accettabile in un paese civile. Una giornata lavorativa dura molte ore, troppe. E il compenso non supera mai i 20 euro. E poi, finito il lavoro nei campi, nel buio della campagna calabrese migliaia di immigrati tornano a casa a piedi, affollando le strade come un esercito di zombie. E di casa, in realtà, nemmeno l’ombra, visto che vivono in capannoni industriali in disuso, senza materassi, acqua, luce e gas. Né servizi igienici.

Come se non bastasse, e in realtà basterebbe eccome, a volte passa una macchina piena di giovanotti calabresi che sparano sugli immigrati. E non è razzismo, o almeno non solo. Spesso è una vendetta dovuta al mancato pagamento dell’obolo richiesto dalla criminalità. Ed è quello che è successo ieri sera. Qualche colpo da una macchina in corsa, un paio di immigrati feriti e poi la rivolta.

Centinaia di extracomunitari si sono riversati per le strade di Rosarno, mettendo a ferro e fuoco la cittadina. Macchine rovesciate e danneggiate, una serata di paura e di violenza. Vetrine infrante e negozi saccheggiati, sembrava il Far West. Sbagliato, sbagliatissimo. Nessun motivo, nemmeno il più valido, giustifica l’uso della violenza. Tantomeno quando a farne le spese è la gente comune, i cittadini che con lo sfruttamento dei lavoratori africani di Rosarno c’entrano davvero poco.

Però il problema esiste, è enorme e forse una conclusione del genere era inevitabile. Anche perché quella di ieri sera non è stata la prima rivolta rosarnese. Ma senza dubbio è stata la più violenta. E allora, in una terra già reietta e maledetta, questi paria dalla pelle nera rappresentano la degenerazione di una società che non riesce a diventare integrata e multietnica. Ed è una coincidenza significativa anche la concomitanza tra la rivolta di Rosarno e la parata di ministri che a Reggio Calabria si impegnavano, giustamente, a investire di più nelle forze dell’ordine dopo la bomba al tribunale della città dello Stretto.

Ma la schiavitù degli africani di Rosarno è un problema che va affrontato con decisione. Perché in uno Stato civile, moderno e democratico, non si può tollerare che migliaia di persone vivano nell’indigenza più totale, senza il minimo di dignità che dovrebbe essere garantita non tanto da leggi, fondi pubblici o piani di integrazione, quanto dalla civiltà di ognuno di noi.

Chi conosce la realtà rosarnese, sa perfettamente che il vaso di Pandora scoperchiatosi ieri sera può ancora produrre molti effetti negativi. La disperazione e la miseria generano la violenza, ed è un assioma incontestabile confermato da millenni di storia dell’uomo. Niente, dicevamo, può giustificare una rivolta così cruenta. Niente può legittimare tutto questo. Ma se mentre parliamo di cittadinanza, integrazione, generazione Balotelli e via cantando, a Rosarno succede quello che è successo ieri, allora forse c’è ancora qualcosa che non va. È un problema culturale, prima di tutto. E, ça va sans dire, di criminalità organizzata.

Le prospettive future, però, non sembrano rassicuranti. Soprattutto se ci sarà ancora chi, come è successo ieri sera a Rosarno, inciterà le forze dell’ordine a sparare addosso ai rivoltosi. Più di un secolo dopo le cannonate milanesi di Bava Beccaris, in alcune zone del nostro paese non si è ancora capito che il disagio sociale e la violenza vanno sconfitti con buonsenso e giustizia, non repressi con altrettanta violenza.
Qualcuno si occupi dei servi della gleba di Rosarno, dunque, se vogliamo che il nostro paese sia davvero e definitivamente, un paese normale e civile.

lunedì 16 novembre 2009

Processo breve, provvedimento indegno

Padre La Manna, presidente del Centro Astalli per i rifugiati: 'Equipare l'immigrazione clandestina a mafia e terrorismo. Chiaro il messaggio del governo: gli immigrati sono criminali'

Roma 13 nov. - "Il processo breve e' un provvedimento indegno che equipara immigrazione clandestina a mafia e terrorismo". Commenta così padre Giovanni La Manna, presidente Centro Astalli - Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, il disegno di legge presentato da Pdl e Lega Nord al Senato, che impone la durata massima dei processi a 6 anni, fatta eccezione per alcuni reati, fra cui quello di immigrazione clandestina.

"La scelta di inserire nell'elenco dei reati di grave allarme sociale l'immigrazione clandestina e' frutto di logiche discriminatorie nei confronti degli stranieri. La gia' insensata fattispecie di reato di immigrazione clandestina, semplice contravvenzione punita con un'ammenda, da oggi viene equiparata ai reati di mafia e terrorismo. Attraverso tale operazione, frutto di accordi politici, il governo lancia un chiaro messaggio all'opinione pubblica: gli immigrati sono criminali. È facile immaginare come tutto cio' contribuisca ad alimentare pregiudizi e pericolose derive xenofobe che gia' da tempo destano allarme nel nostro paese", chiude il religioso.

Fonte: Redattore Sociale

giovedì 29 ottobre 2009

Immigrati una risorsa incompresa

Giovanna Zincone (per La Stampa)

È rapida, consistente, supera ormai la media europea, ha cospicue immissioni di irregolari, è ben radicata nel tessuto sociale. Nel Dossier Statistico sull’immigrazione italiana, presentato ieri da Caritas, questi caratteri emergono chiaramente.

Gli immigrati sono circa 4.300.000, il 7,2% della popolazione. Con Spagna (+726%) e Irlanda (+400%), l’Italia (+292%) è tra i Paesi europei che hanno visto moltiplicare più in fretta la quantità di stranieri negli ultimi 10 anni. A nutrire la rapida moltiplicazione dei nostri immigrati sono stati anche, e molto, flussi irregolari. Lo dimostrano le cifre delle numerose regolarizzazioni, inclusa l’ultima, quella che ha registrato 300.000 richieste, ed erano solo lavoratori domestici. È una cifra enorme, se si pensa che esclude neo-comunitari come i romeni perché non ne hanno più bisogno. È una cifra enorme, se si considera che la crisi economica sta producendo importanti controesodi e che anche dall’Italia i rientri sono iniziati. In Spagna e in Germania il numero dei residenti immigrati è già sceso. Ma certo gli esodi non modificheranno il fatto che in Europa e in Italia l’immigrazione ha un carattere strutturale.

I nostri immigrati - stando ai dati Caritas - sono lavoratori (2 milioni), studenti (629.000). Sono fonti di benessere perché producono il 10% della ricchezza nazionale e versano 7 miliardi di contributi previdenziali. Caritas, mentre evidenzia questi e altri aspetti confortanti, cerca di attenuare quelli preoccupanti: sbarchi di clandestini, immigrazione come fonte di aumento della criminalità e sfida all’ordine pubblico. Il Dossier, a ragione, rileva che gli sbarchi rappresentano una quota minima (1%) degli ingressi e soprattutto osserva che quelle navi trasportano disperati, molti dei quali hanno diritto all’asilo. Caritas ritorna a segnalare che la percentuale di devianti tra gli immigrati regolari corrisponde a quella tra gli italiani. Rileva pure che i tassi di attività e di occupazione degli stranieri sono più alti di quelli dei nazionali. Consiglia di non temere la comunità musulmana perché la vede in gran parte pacifica.

Questa determinazione all’ottimismo deriva dal suo impegno etico a difesa dei deboli. È degno perciò del massimo rispetto, anche se la realtà ne esce un po’ trasfigurata. Resta il fatto che il tasso di criminalità immigrata nel complesso è troppo alto. L’aumento della disoccupazione tra gli stranieri, che si accompagna a un aumento seppur minore tra gli italiani, genera tensioni. La quieta comunità musulmana ospita in grembo piccoli nuclei sovversivi che potrebbero produrre guai, come l’attentato milanese insegna.

L’immigrazione non è un valzer per signorine. È un percorso doloroso e difficile per chi emigra. È un fatto duro da metabolizzare per gli abitanti dei Paesi di immigrazione. A chi ha oggi difficoltà a metabolizzare suggerisco una visita, anche solo virtuale, al neonato Museo Nazionale dell’Emigrazione: sfata molti luoghi comuni e aiuta a mettersi nei panni degli altri. Gli italiani sono emigrati in massa anche dalla Padania, non solo dallo sciagurato Mezzogiorno. Nel 1890 il Prefetto di Vicenza informa che «all’emigrazione si abbandonano moltissimi contadini, i quali vi devono essere spinti non tanto dalla speranza di trovare in America di che arricchire rapidamente, quanto dall’impossibilità di campare più oltre la vita nella loro Patria». Anche i nostri immigrati varcavano le frontiere di frodo o con poco credibili permessi turistici. L’emigrazione italiana ha portato con sé non solo potenti mafie, ma anche gruppuscoli sovversivi e autori di attentati eccellenti. Le nostre comunità erano quindi considerate pericolose per l’ordine pubblico. Come se non bastasse, agli italiani si rimproverava pure di rubare il posto ai lavoratori locali. E, mentre il grosso dei nostri emigrati di fatto contribuiva ad arricchire i Paesi ricettori, indebite generalizzazioni anti-italiane da parte di politici e opinionisti di spicco finivano per legittimare cacce all’uomo e stragi. Come nel caso del linciaggio di 11 lavoratori italiani ad Aigues-Mortes, seguito dal prevedibile processo farsa. L’immigrazione purtroppo non è un valzer per signorine, perciò è bene che ci si impegni tutti, classi dirigenti italiane e straniere in testa, per evitare che degeneri in una danza macabra.

sabato 3 ottobre 2009

Piazza del Popolo: in 150mila per la libertà d'informazione



ROMA - Piazza del Popolo gremita (secondo gli organizzatori hanno partecipato in 150mila) per la manifestazione a difesa della libertà di stampa. Di seguito alcune autorevoli voci raccolte dalle agenzie di stampa. Tutte tranne una che ho raccolto personalmente.

Roberto Saviano (dal palco di piazza del Popolo): «Quello che sta accadendo dimostra una vecchia verità, e cioè che verità e potere non coincidono mai. La libertà di stampa che vogliamo difendere è la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni. L'Italia è il secondo paese dopo la Colombia per il numero di persone che si trovano sotto protezione. Raccontare in certe parti d'Italia, soprattutto al sud, è complicatissimo e costringe a dover difendere la propria vita. Il nemico principale è l'indifferenza, che isola chi prova a descrivere la realtà. Ecco perchè siamo quì, per dire che ogni paese ha bisogno della massima libertà di espressione».

Giorgio Lepri (storico direttore dell'Ansa): «Impegnamoci tutti per evitare che si soffochino le voci libere e per fare in modo che il diritto di indignazione che si leva da questa piazza vada in tutte le piazze d'Italia. Sono nato e cresciuto sotto il fascismo e so che significa una società senza libera informazione, una stampa asservita al potere, ascoltare una sola voce e non potere esprimere la propria. Oggi è diverso, perchè abbiamo l'art. 21 della Costituzione, forse il più bello della Carta fondamentale dello Stato. Ma attenzione: abbiamo ancora spazi di libertà, anche se c'è in Parlamento una proposta di legge per modificare l'art. 21. Ma c'è anche questa piazza e il grido che si leva da questa».

Giorgio Bocca (giornalista). «La manifestazione è necessaria perchè la libertà di stampa è in pericolo. Ma che sia efficace ho qualche dubbio, perchè ormai il potere del Presidente del Consiglio di intervenire sui mezzi di comunicazione è evidente. La libertà di stampa relativa in Italia c'è ma, come dice De Benedetti, i giornalisti sono intimiditi. Sono condizionati. Ed è condizionata anche l'opinione pubblica. In Italia c'è stato in questi anni un vero e proprio cambio di civiltà. Non so, per esempio, quanti di quelli che hanno visto Santoro lo hanno fatto per autentico desiderio di verità o quanti volessero semplicemente vedere in faccia la escort di Berlusconi. Penso che il rischio di un nuovo fascismo sia attuale, in Italia. E penso che, come avvenuto per il delitto Matteotti, arriverà il momento in cui questo Governo si troverà nella necessità di sopprimere davvero la libertà di stampa».

Daniele Capezzone (giornalista e portavoce Pdl): «Tutti sanno, inclusi i promotori e gli aderenti alla manifestazione di oggi, che non c'è alcuna libertà di stampa e di opinione in pericolo in Italia».

«Bbbbb... Bucio de culo!»: Martellone (attore di Boris -foto)