No alle speculazioni politiche ed alla guerra di religione.
di Alessandro Colaiacono (fonte: il blog di ImmigrazioneOggi)
Il terribile omicidio della giovane Sanaa ad opera del padre a Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, non è soltanto una notizia di cronaca di quelle che solitamente decidiamo di non pubblicare.
È la tragica storia di una ragazza marocchina uccisa dal padre perché fidanzata con un uomo italiano, suo datore di lavoro.
Per quanto sia umanamente dolorosa la vicenda di Sanaa, per quanto la sua morte così orribile contrasti con la sua voglia di vivere e la volontà di integrarsi, per quanto i commenti dei media e della politica cerchino in tutti i modi di leggere la vicenda attraverso le lenti del fanatismo religioso, Sanaa non è una martire dello scontro tra religioni.
La diciottenne marocchina è la vittima di una subcultura che poco ha a che fare con l’islam ed i suoi precetti, ma è frutto di un tessuto sociale che ha della donna una concezione primitiva. Una cultura che fino a qualche decennio fa era diffusa, seppur con modalità differenti, anche in alcune zone dell’Italia.
Con questo non vogliamo dire che non esista il problema dell’integrazione per le donne di alcune comunità di tradizione islamica. È un fenomeno evidente, denunciato da autorevoli studiosi ed affrontato nella Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione promossa dal Ministero dell’interno. Un problema complesso e che quindi richiede soluzioni appropriate, investimenti e pochi proclami. Occorre favorire processi che portino queste donne in contatto con le istituzioni, che vengano promossi progetti che evitino il loro isolamento fin dal momento del ricongiungimento familiare: corsi di lingua, consultori, programmi speciali nelle scuole quando queste accompagnano i figli, collaborazioni con i centri culturali islamici. Sono molte le iniziative intraprese in questa direzione, esperimenti isolati fatti da organismi quasi sempre del privato sociale, con pochi mezzi ma capaci di leggere esigenze nascoste ed entrarvi in contatto.
Le politiche ufficiali fatte finora non vanno in questa direzione, la diversità continua ad essere vista con timore ed affrontata nei modi peggiori. Qualcuno ha addirittura ipotizzato una fragilità psichica del padre di Sanaa dovuta alla dieta del Ramadan.
Allora più che i tanti proclami delle istituzioni, tutte pronte a costituirsi parte civile nel processo, ci aspettiamo interventi che promuovano l’emancipazione di queste donne: magari non con i divieti e le proibizioni - come quello del velo, sempre tirato fuori in questi casi -, ma con relazioni e cultura.
Un ultimo pensiero è per Sanaa che coraggiosamente non ha avuto paura di incontrare la cultura del suo nuovo Paese e che ha cercato la vita normale delle sue coetanee. Questa normalità non l’ha trovata prima, cerchiamo almeno di dargliela ora, a lei ed alle sue giovani sorelline.
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