giovedì 30 aprile 2009

Immigrazione: gli effetti dalla crisi ed alcune risposte possibili


di Giuseppe Casucci (Responsabile Uil Immigrazione)

La crisi economica e finanziaria che sconvolge le economie del pianeta colpisce duramente la domanda di beni e servizi, quindi la loro produzione ed inevitabilmente il mercato del lavoro.
L’Oil calcola che l’attuale depressione dell’economia mondiale distruggerà – solo nel 2009 - complessivamente 52 milioni di posti di lavoro (e la stima è per difetto), a causa del crollo della domanda in comparti come quello energetico, quello manifatturiero, le costruzioni ed i servizi alla salute. Tutti settori che hanno funzionato negli ultimi anni da calamita per i lavoratori migranti.
Conseguentemente, dicono gli osservatori, gli immigrati sono i primi a pagare un prezzo salato per questa crisi. Secondo alcuni esperti consultati dalla rivista americana Newsweek, il flusso di migranti dal Sud verso il Nord del mondo potrebbe ridursi del 30% già quest’anno. Joseph Chamie, ex capo della divisione “popolazione”, delle Nazioni Unite, ha dichiarato che il flusso in uscita dei migranti caratterizza già la situazione in diversi Paesi, tra cui Spagna, Irlanda, Repubblica Ceca, gli Emirati Arabi Uniti e gli USA, il Giappone, l’India e la Cina. Per l’esperto, che prevede il licenziamento di milioni di migranti in tutto il mondo, “si assiste oggi ad un rovesciamento nelle tendenze migratorie, un fenomeno destinato a durare quanto la crisi.
Sempre secondo l’OIL, la crisi nei settori chiave della produzione mondiale potrebbe portare al dimezzamento del numero di migranti nei settori petroliferi e delle industrie dell’indotto (con la perdita di 7 milioni di posti di lavoro stranieri). In Giappone anche a causa della crisi della Toyota – negli ultimi 4 mesi – decine di migliaia di immigrati brasiliani hanno perso occupazione e casa (in quanto fornita dall’azienda). Una parte di loro è già tornata in patria, altri dormono nelle chiese e nei parchi, e aspettano che lo Stato gli offra il costoso viaggio di ritorno.
In Malesia, 200 mila lavoratori hanno già perso il lavoro, metà dei quali migranti. Nel frattempo in Cina, circa 20 milioni di contadini stanno ritornando nelle campagne, dopo anni di lavoro in fabbrica in grandi città come Shandong, Dongguan e Shangai. Un simile fenomeno, raccontano gli esperti OIL, sta accadendo in India dove decine di industrie urbane chiudono i battenti.
E per tornare in Europa, sappiamo di migliaia di migranti marocchini che quest’anno non hanno trovato lavoro nelle campagne della Castiglia ed Andalusia, in quanto gli spagnoli sono tornati a fare il mestiere di raccoglitore d’olive abbandonato da anni. In Irlanda, secondo l’Economic Social Research Institute, 30 mila lavoratori stranieri hanno già lasciato il paese a causa del periodo di depressione dell’economia.
Negli USA, dove oltre 11 milioni di migranti vivono in condizioni di irregolarità, tra il 2000 ed il 2006 circa un milione di messicani l’anno hanno attraversato il confine con l’America. Nel 2008, però, si è già registrata una forte riduzione negli arrivi ed oggi gli esperti predicono un calo del 40% nei nuovi ingressi ed il ritorno a casa di almeno un milione di persone.
Anche da noi in Italia accadono fenomeni simili, anche se finora meno vistosi. Nel triveneto la chiusura di molte piccole e medie aziende, la messa in cassa integrazione, la dislocazione di attività produttive all’estero, hanno colpito duramente l’economia locale e prodotto la perdita del lavoro di migliaia di persone, soprattutto stranieri. La stessa cosa succede in tutte le regioni padane e nello stesso Piemonte colpito duramente dalla crisi della Fiat e del suo indotto. Molti italiani cominciano a riconsiderare la necessità di tornare a fare lavori abbandonati da tempo, se è vero ad esempio che la domanda di formazione in badantato ha registrato recentemente un boom nelle iscrizioni da parte di italiani in Veneto e Lombardia. Anche nel resto d’Italia, la crisi nella domanda di abitazioni ha prodotto un rallentamento della domanda di lavoro nel settore delle costruzioni, così in settori produttivi ma anche di servizi come il commercio ed il turismo fortemente provati dalla depressione dell’economia.
La conseguenza è visibile anche sul piano dei soldi mandati a casa. Negli ultimi dieci anni, le rimesse avevano spiccato il volo da 73 miliardi di US$ al record di 337 miliardi di US$ nel 2007, sorpassando di gran lunga il volume delle risorse destinate dai paesi ricchi in termini di aiuti allo sviluppo del Terzo Mondo (dati della World Bank). Un aspetto importante se si tiene conto che oggi le rimesse rappresentano il 45% del Pil del Tajikistan, il 38% dell’economia della Moldavia ed il 30% di quella dell’Honduras, per fare alcuni esempi.
Oggi ci sono chiari segnali di un significativo calo delle rimesse. Già nel 2008 il volume globale è sceso a 283 miliardi di US$. Secondo il FMI nel 2009 il calo potrebbe essere di un ulteriore 30%. L’effetto sulle economie di molti Paesi poveri potrebbe essere devastante perché, assieme al calo di rimesse si potrebbero aggiungere migliaia di senza lavoro che ritornano a casa. I governi di Moldavia ed Ucraina paventano già il rischio di collasso delle proprie economie. Lo stesso Messico – che dichiara di ricevere 23 miliardi di US$ in rimesse l’anno – parla di tsunami economico, visto che le rimesse rappresentano la seconda fonte di moneta estera pregiata.
Non c’è dubbio che la crisi è anche la causa delle maggiori insofferenze verso gli stranieri registrate in molti Paesi ospiti, con un irrigidimento delle normative, la richiesta di sospensione dei flussi d’ingresso (non solo da noi in Italia, ma anche in paesi come Spagna, Inghilterra, ad esempio), fino ad arrivare ad episodi di aperta xenofobia. Il razzismo non è quasi mai un fatto puramente ideologico, ma spesso il prodotto di processi economici e sociali a cui le classi dirigenti non hanno potuto (o voluto) dare risposte per tempo.
E’ vero in Italia, dove il governo dell’immigrazione è latitante da sempre, ma è vero anche in Europa. A novembre scorso, un survey realizzato dalla tedesca Marshall Fund – su di un campione rappresentativo di molte migliaia di intervistati – ha dato risultati sorprendenti: l’80% dei cittadini intervistati in Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Olanda e Polonia, ha richiesto più stretti controlli alle frontiere, mentre il 73% chiedeva sanzioni più dure per i datori di lavoro che assumevano migranti irregolari. Un survey più recente – citato la scorsa settimana dal Financial Times – riportava che oltre il 70% dei cittadini europei intervistati riteneva giusto il ritorno in patria anche degli immigrati regolari che perderanno il lavoro.
E’ certo ingeneroso da parte degli europei chiedere a persone straniere, magari radicate da anni in Europa, di abbandonare di colpo tutto e tornarsene a casa. In effetti la crisi gioca pesante sull’umore e la fiducia nel futuro dei nativi nell’Europa dei 27, e produce anche soluzioni poco praticabili ed in parte illogiche. In effetti, se si guarda al medio lungo periodo, tutti i demografi sono concordi nel dire che l’Europa (ma soprattutto l’Italia) continuerà ad aver bisogno di nuovi immigrati, a causa del declino demografico che – stante le cose continuerà anche nei prossimi decenni. Per mantenere positivo il bilancio demografico in Italia, la richiesta , dicono gli esperti, nonsarà inferiore ai 400 mila immigrati l’anno.
Ma intanto nel breve e medio periodo la crisi va in direzione opposta e molte migliaia di immigrati diventano superflui in termini lavorativi. Cosa fare perché la situazione non precipiti in gravi lacerazioni sociali? Questa situazione produrrà molta disoccupazione tra gli italiani e tra gli immigrati. Questi ultimi, a causa dell’attuale legge in vigore, dopo sei mesi dal licenziamento, perderanno anche il diritto a restare in Italia. In parte chi ha famiglia, manderà moglie e figli a casa in attesa di tempi migliori, rimanendo in Italia in condizione di irregolarità.
Molte stime parlano di una cifra di irregolari già vicina al milione di persone, che stante la situazione è destinata ad aumentare velocemente, andando ad ingrossare le fila di quelli impiegati nel sommerso, in una condizione di quasi assenza di diritti. Questa situazione aumenta l’effetto di dumping sociale che una parte così ricattabile della manodopera esercita nel confronto del resto delle forze lavoro. Se non si mette mano a questa situazione, l’insofferenza degli italiani verso l’immigrazione, e gli stessi episodi di xenofobia sono destinati ad aumentare.

Cittadinanza, un miraggio per 400mila nati in Italia


di Gianluca Schinaia
(da Focus Immigrazione 239 - Uil)

Roma, 20 aprile 2008 - Nascere e crescere in una nazione, senza esserne cittadini. Sono circa 398mila i ragazzi nati in Italia da famiglie di stranieri che hanno scelto il nostro Paese come luogo di emigrazione. La legge che disciplina l'acquisizione della cittadinanza italiana è la 91 del 1992. Nonostante il fatto che la normativa sia stata approvata relativamente di recente, secondo gli esperti l'impianto legislativo non ha tenuto conto dell'emigrazione di massa di questi ultimi anni ed è stata basata sul principio dello ius sanguinis: la cittadinanza italiana si acquisisce in base al luogo di nascita di uno dei genitori. «Sostanzialmente – afferma Ennio Codini, professore di diritto pubblico all'università Cattolica di Milano ed esperto della Fondazione Ismu – la 91 del '92 somiglia alle leggi che c'erano prima: una revisione, neanche innovativa, di quanto era previsto dal codice Napoleonico». Al riguardo dell'acquis del diritto, diverse sono le modalità per gli immigrati che arrivano e per i figli di stranieri che nascono e risiedono in Italia. Per diventare "italiani" gli stranieri extracomunitari devono trascorrere almeno dieci anni nel nostro Paese, una durata che presuppone una residenza continua e riconosciuta dalle autorità. Invece, sia in Francia che nel Regno Unito, l'acquisizione della cittadinanza per gli extracomunitari scatta dopo solo cinque anni di residenza, ma in entrambi i Paesi la provenienza dello straniero da un'ex colonia riduce ulteriormente i tempi. D'altra parte, la Svizzera e la Germania adottano dei regimi restrittivi simili a quello nostrano. Nella Confederazione elvetica l'extracomunitario deve aspettare dodici anni per diventare cittadino svizzero, mentre in Germania gli anni sono otto. In tutti gli Stati considerati – compreso il nostro – una volta esauditi i termini per ottenere la residenza bisogna sostenere un esame sulla lingua e sulla cultura del Paese di arrivo, al fine di testare il livello di integrazione, e a quel punto termina la procedura per la cittadinanza. Per quanto concerne invece le seconde generazioni, ovvero i figli degli immigrati extracomunitari, la regola italiana è basata sullo ius sanguinis. Il problema nasce quando si è figli di genitori extracomunitari. «In questo caso, uno dei più diffusi, la cittadinanza si ottiene al diciottesimo anno d'età – continua Codini – ma è necessaria la residenza ininterrotta durante l'intero periodo». Codini fa il raffronto con la Francia. «Nell'Esagono, il termine per l'ottenimento scatta a 16 anni e basta che gli anni di residenza siano stati 11». Una questione non da poco, visto che sono moltissime le storie italiane di ragazzi che perdono il diritto alla cittadinanza solo per aver trascorso, in 18 anni, qualche mese all'estero. In Germania, esiste la regola dello ius soli ma per la cittadinanza ci vogliono almeno otto anni di residenza continua di uno dei due genitori. E per acquisire la cittadinanza inglese, a un ragazzo nato nel Regno Unito basta la residenza permanente del padre o della madre. Secondo Codini, l'unico aspetto favorevole per un extracomunitario in Italia nella disciplina sulla cittadinanza è l'acquis matrimoniale. «In realtà - prosegue – è un cimelio del codice Napoleonico, dove si stabiliva che la moglie dovesse acquisire la cittadinanza del marito. Oggi però ci sono degli abusi con i matrimoni fittizi». Nel pacchetto sicurezza – recentemente passato all'esame del Senato – si è cercato di rendere più difficile l'ipotesi del matrimonio strumentale per acquisire la cittadinanza, aumentando i termine di pregressa residenza del coniuge straniero da sei mesi a due anni. Insomma, la normativa italiana sulla cittadinanza è basata su principi anacronistici e rende la vita difficile anche ai ragazzi nati e cresciuti in Italia nell'applicazione procedurale. Codini segnala alcune idee per migliorare l'impianto legislativo: «Innanzitutto, il termine di dieci anni per l'immigrato adulto non ha senso: è uno tra i più lunghi nei Paesi occidentali». Quindi, la questione della verifica. «In Italia c'è un esame dove la Prefettura ha la più ampia discrezionalità sulle domande e che si basa sulla dichiarazione dei redditi del richiedente: suggerirei criteri intellegibili e non dovrebbe essere più valutata la busta paga, come invece avviene oggi». Per quanto riguarda, infine, le seconde generazioni Codini sconsiglia l'applicazione dello ius soli puro. «Ma forse bisognerebbe ispirarsi al sistema francese: 16 anni, regola dell'adempimento scolastico e meno rigidità sul criterio della residenza continua».

L’integrazione culturale dell’islam secondo Mantovano



Treviso – “Costruire una società in cui convivere in modo armonioso. Partendo però dal riconoscimento di un nucleo essenziale e non sottoposto a discussione di principi inderogabili riconoscibili da chiunque”. Così il sottosegretario di Stato all’Interno, Alfredo Mantovano, ha aperto il suo intervento al seminario ‘Islam italiano, problemi giuridici aperti’, organizzato dall’Università di Padova e dalla Fondazione Cassamarca, e tenutosi il 13 marzo all’università di Treviso. Tantissimi gli studenti presenti. “L’obiettivo (dell’integrazione)- ha detto- è di costruire una società nella quale si conviva bene e non da separati in casa. Partendo però dal riconoscimento di un nucleo essenziale di principi, primo fra tutti la parità tra i sessi. Questa chiarezza- ha aggiunto- è necessaria perché chi viene da noi da un Paese lontano deve conoscere l’entità nella quale chiede di volersi inserire. Il lavoro da svolgere è far sì che la convivenza si accompagni con l’adeguata tutela della nostra identità”. Dopodiché l’on Mantovano ha affrontato buona parte dei problemi che si frappongono ad una “pacifica convivenza tra persone di diversa cultura”. In particolare se provenienti dal cosiddetto “mondo islamico”. Divieto di poligamia e del burqa. “Il rispetto della libertà religiosa dei musulmani non può ammettere alcuna deroga al divieto di poligamia- ha precisato- Il matrimonio monogamico è strettamente legato ai principi della vita comune. E così vanno affrontate le altre questioni che si pongono, a cominciare dall’uso del velo. Nella gran parte dei casi si tratta di un semplice foulard, in altri si tratta dell’uso del burqa che non permette l’identificazione della persona”. Educazione dei figli. “Ai bambini immigrati di una famiglia musulmana- ha detto- non serve l’insegnamento (nelle scuole pubbliche italiane, ndr) dell’arabo o del Corano. Le famiglie e le loro comunità possono e sanno provvedere a questo. Serve invece insegnare l’italiano e spiegare qual è il contesto sociale e culturale nel quale sono giunti”. Luoghi di culto. “Molti pensano che una moschea sia l’equivalente di una parrocchia e che il sermone del venerdì sia analogo all’omelia domenicale- ha detto Mantovano- Ma ridurre la moschea a un sito di mera preghiera distorce la tradizione musulmana”. Inoltre, secondo Mantovano l’integrazione sarebbe più agevole se, invece che costruire moschee, si diffondessero le musalla, luoghi di preghiera simili alle cappelle cattoliche. “La costruzione di una musalla piuttosto che di una moschea- ha proseguito- riduce il tasso di polemica e di politicità, introducendo la distinzione che in Occidente è fondamentale tra il centro politico-culturale e il luogo di preghiera”. Dialogo e assenza di referenti affidabili nell’islam italiano con cui lo Stato possa interagire. “In tema di libertà religiosa il sistema politico italiano va nella direzione delle intese con le differenti comunità religiose- ha detto- L’ostacolo numero uno è identificare strutture organizzative veramente rappresentative dei musulmani in Italia. Purtroppo però mancano interlocutori seriamente rappresentativi. Dico questo senza alcun disprezzo nei loro confronti. La gran parte dei musulmani- ha concluso- non si sente rappresentata dalle associazioni. Queste ultime, inoltre, poiché rappresentano solo una piccola parte, normalmente hanno un tasso di fondamentalismo superiore alla media dei musulmani”.
Infine, il Sottosegretario all’Interno ha auspicato che, in tema di flussi migratori, l’Italia del futuro, “dia priorità a quei Paesi con cui si hanno maggiori assonanze”. “Non si tratta di stabilire preferenze etniche- ha concluso- ma di essere consapevoli che la convivenza riesce tanto meglio quanto più numerosi sono gli elementi che si hanno in comune”. (i.m.)

domenica 26 aprile 2009

Permesso di soggiorno: missione impossibile


di Italo Mastrangeli
(apparso su Famiglia Musulmana di marzo)

Roma – “E io pago!” diceva, dilatando la lettera a, il grande Totò. Un’esclamazione che i circa quattro milioni di immigrati regolari presenti in Italia avranno quantomeno pensato ogniqualvolta si sono recati allo ‘Sportello Amico” per versare i 72,12 euro necessari per inoltrare la domanda di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno elettronico (pse). Una tassa che presto potrebbe salire fino a 200 euro, per un servizio scadente. Forse, il peggiore d’Europa.

Già, perché rinnovare il permesso di soggiorno è un percorso a ostacoli. Quando va bene i tempi d’attesa possono variare da quattro a sei mesi, ma fornire un dato preciso è impossibile vista la mole di richieste che ogni anno intasano le questure italiane e che solo nel 2008 sono state più di un milione. Quando va male, però, una cosa è certa: il tuo caso diventa patologico e ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno si trasforma in odissea. E dire che di quel permesso un immigrato non può fare a meno. Infatti, con la ricevuta delle Poste non si hanno gli stessi diritti di chi il permesso valido ce l’ha in tasca, nonostante così stabilisca una direttiva del 2006 del Ministero dell’Interno. Certo, con la ricevuta o il permesso scaduto ci si può iscrivere al Servizio sanitario nazionale (presentando la busta paga o facendo un’autocertificazione) e si possono, anzi, si devono pagare le tasse. Ma non si può espatriare, a meno che non si decida di tornare al paese d’origine senza passare per l’Europa di Schengen. E soprattutto non si può essere assunti, altrimenti, nel caso in cui la richiesta venga bocciata, ecco che il datore di lavoro rischia una denuncia penale solo perché ha creduto che di lì a poco il permesso ti sarebbe arrivato.

Nonostante l’importanza di avere un permesso valido, nel Bel Paese si continua a fare finta che il problema non esista. “Abbiamo testimonianza di persone – ha detto a Famiglia Musulmana Oliviero Forti, responsabile immigrazione Caritas italiana - che vanno a ritirare il permesso che è già scaduto e così si trovano costretti a istruire una nuova pratica, quando secondo la legge (Testo Unico dell’Immigrazione 286/98, ndr) il permesso dovrebbe essere rilasciato, rinnovato o convertito entro qualche settimana dalla presentazione della domanda”. Colpa della carenza di personale e di un sistema farraginoso, elefantiaco, che dall’11 dicembre 2006, giorno dell’entrata in vigore della convenzione tra Poste italiane, Viminale e Poligrafico di Stato, non ha fatto altro che allungare i tempi di rilascio. “E pensare – ha aggiunto Forti – che Poste italiane si era impegnata a istruire la pratica proprio per accorciare i tempi. Una convenzione firmata per il basso numero di personale delle questure che, invece, ha finito per creare un ulteriore passaggio burocratico che di fatto ha prolungato i tempi e aggravato i costi”.

La spesa per ogni immigrato che fa domanda per il permesso di soggiorno è di 72,12 euro, ma presto potrebbe lievitare fino a 200 euro, come previsto dal disegno di legge 733 sulla sicurezza approvato nei giorni scorsi in Senato e ora in discussione alla Camera. “La Caritas italiana è decisamente contraria al provvedimento – ha assicurato Oliviero Forti – perché questi soldi non verranno utilizzati per snellire le pratiche ma saranno destinati in un apposito fondo per i rimpatri. Molti immigrati che vengono qui alla Caritas – ha aggiunto - ci hanno detto che loro sarebbero ben felici di pagare di più, ma per un sevizio migliore, con tempi certi e rapidi”. Punta il dito contro la Lega Nord, invece, Giuseppe Casucci, responsabile Uil-Immigrazione. “Riteniamo – ha detto Casucci a Famiglia Musulmana - che questo provvedimento sia la conseguenza della politica della Lega, volta a fare terra bruciata nei confronti di tutta l’immigrazione, regolare e non. Inoltre, beffa delle beffe, il maggiore esborso finirà in un fondo per i rimpatri. In Inghilterra, Spagna e Francia i costi sono come i nostri attuali (70-80 euro) ma per un servizio erogato in tempi certi. Pagare di più come si vuol fare per qualcosa di pessimo non è degno di un paese civile”.

Roba da “Ai confini della realtà”: pagare 200 euro un permesso di soggiorno che arriva sempre oltre il limite di venti giorni previsto dalla legge quando in Germania basta un giorno per averlo, come ha raccontato una ragazza senegalese alla trasmissione tv ‘Presa Diretta’ in onda su Rai Tre. Del resto è assurdo che in alcuni casi, come accaduto a tanti che hanno fatto richiesta di un permesso ‘per attesa occupazione’ che dura solo sei mesi, il pse ti arrivi già bello che scaduto. Insomma, non fai in tempo a stringere in mano quel tesserino azzurrognolo con la tua foto stampata sulla sinistra e il micro cip con tutti i tuoi dati e le impronte digitali che riluce sulla destra, che devi già istruire una nuova pratica e sborsare di nuovo 72,12 euro. E meno male che “la validità del permesso decorre dal momento in cui la richiesta viene inviata dalla Questura al Poligrafico per la stampa”, come ha spiegato a Famiglia Musulmana l’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, e non dal momento della presentazione della domanda alla Posta, né dalla data di scadenza del vecchio permesso, altrimenti di permessi che arrivano prima del termine non ne rimarrebbero granché. Dati recenti del Ministero dell’Interno dicono, tra l’altro, che ci sono circa un milione di pratiche incagliate tra un ufficio e un altro. “Ci sono oltre un milione di pratiche ancora in attesa di disbrigo su 2 milioni e 400mila domande presentate dal dicembre 2006 – ha detto Giuseppe Casucci della Uil - cioè da quando il Ministero dell’Interno si è avvalso della collaborazione di Poste italiane. E’ un sistema farraginoso, e all’inizio del 2007 le cose andavano anche peggio. Oltre alle Poste poi, il permesso deve anche passare per il Poligrafico che lo stampa e ciò allunga di altri 3 mesi la procedura”. Per accorciare i tempi d’attesa potrebbe allora essere utile rinunciare al pse e tornare al vecchio permesso cartaceo. Infatti, il Poligrafico di Stato è l’unico ente preposto alla stampa ed è lì, e solo lì, che arrivano da tutta Italia oltre un milione di kit all’anno (kit contenente la modulistica, la copia dei documenti, le impronte digitali, eccetera). Per ogni pratica il Poligrafico rilascia un pse ogni 72 giorni in media. Togliere questo passaggio significherebbe ridurre di due o tre mesi l’attesa e contrarre le spese, visto che la convenzione col Poligrafico ha un costo che sono gli stessi immigrati a sostenere.

Ad ogni modo, che le cose non filassero per il loro verso lo si sapeva fin dai primi mesi del 2007. Basti pensare che nel maggio di quell’anno, a fronte di 560 mila domande presentate, i permessi di soggiorno elettronici in lavorazione erano solo 31.500, cioè il 2,3%. Pare per colpa di un software che non era in grado di leggere i moduli. Voci di corridoio. Comunque, non era solo questo il problema. Già nel marzo 2007 la Caritas denunciava in un comunicato stampa: la complessità della modulistica e le relative difficoltà nella compilazione; la frequente indisponibilità degli appositi moduli che aveva alimentato una sorta di bagarinaggio; e, infine, la lentezza del servizio di Poste italiane. Per questo l’allora ministro Giuliano Amato decise di avviare (il 5 febbraio 2007) una sperimentazione della durata di tre anni coinvolgendo 223 comuni (tra cui Firenze, Padova, Lecce, Ancona, Provincia di Trento, eccetera), con lo scopo di sostituire Poste italiane e avviare una proficua collaborazione tra enti locali e questure. Insomma: si trattava di trasferire le competenze per il rilascio dei permessi alla pubblica amministrazione, esattamente come avviene in tutta Europa a eccezione di Grecia e Portogallo. Col cambio di governo di questa sperimentazione non si parla più, ma sappiamo che sta proseguendo. I risultati si conosceranno solo nel 2010, al termine dei tre anni previsti.

Al permesso di soggiorno a punti l’attuale governo vorrebbe invece affidare il percorso d’integrazione dello straniero, come previsto dal disegno di legge 733 sulla sicurezza. Come per la patente a punti, chi sbaglia perde crediti. Una volta esauriti, il permesso viene ritirato e lo straniero da regolare diventa irregolare. Clandestino. E si badi bene: tutta la nuova politica d’integrazione dovrebbe basarsi su questo strumento, visto che è stato praticamente azzerato il Fondo per l’integrazione. “Il permesso a punti – ha detto Oliviero Forti della Caritas italiana - è parte della ‘politica spot’ del governo, che non produce alcun risultato concreto sul piano dell’integrazione, che manca di organicità. Gli immigrati regolari – ha proseguito - hanno un tasso di delinquenza pari o inferiore agli italiani, dunque non si capisce a che, o a chi, servano questi punti. Il percorso d’integrazione non può essere ridotto a una mera questione di crediti. Il governo ha tagliato 100 milioni di euro dal Fondo per l’integrazione, che ora è di soli 5 milioni, una cifra che forse basterebbero per due quartieri di Roma. Tanto per fare un paragone con altri Paesi europei, in Germania il fondo è di 700 milioni e in Francia di 200-300 milioni. Noi della Caritas – ha concluso Forti - siamo convinti che bisogna facilitare le persone ad avere il permesso di soggiorno e non creare loro degli ostacoli, perché solo chi è irregolare è, di solito, colui che delinque”. E i dati Istat 2008 confermano questa tendenza. L’immigrato regolare commette reati nella stessa misura degli italiani, mentre l’irregolare è in tutte le tipologie di reato sempre colui che delinque di più. Negli omicidi ad esempio (periodo di riferimento 2004-2006) un denunciato su tre è straniero e la quota di irregolari sfiora il 72%. Come dire insomma che non è lo ‘straniero che delinque’ ma è la condizione di clandestinità che fagocita il crimine.

Di fronte alla crisi economica mondiale che annuncia una nuova Grande Depressione, centinaia di migliaia di immigrati regolari potrebbero perdere il loro lavoro e in breve tempo diventare clandestini. Una situazione che rischia di creare nuove conflittualità e acuire la tensione sociale. Un nuovo viaggio al termine della notte.

Piana di Gioia Tauro: sofferenza senza confini


di Italo Mastrangeli
(apparso su Famiglia Musulmana di marzo)

Tuguri di cartone e cellophane dentro fabbriche abbandonate e mezze diroccate. Il fumo dei fuochi, accesi un po’ dappertutto per cucinare e mitigare il freddo che entra nelle ossa, che rende l’aria irrespirabile. E quando c’è cattivo tempo, la pioggia che filtra dal tetto scassato e allaga il pavimento in cemento. Sono queste le condizioni in cui vivono oltre 1.500 migranti, la maggior parte sprovvisti del permesso di soggiorno, nella Piana di Gioia Tauro in provincia di Reggio Calabria. Giunti in Italia da Ghana, Marocco, Costa d’Avorio, Mali e Sudan, convinti di trovare l’Eldorado e, invece, finiti assieme a pidocchi, ratti, scarafaggi e pulci. Come sempre da dieci anni a questa parte, sono arrivati tra fine estate e inizio autunno per la raccolta stagionale degli agrumi e si sono accampati nei comuni di Rosarno, San Ferdinando e Rizziconi, in fabbriche-suburre prive dei minimi requisiti igienico-sanitari, in attesa che qualche capobastone al soldo delle aziende agricole li recluti. Un giorno di lavoro vale 25 euro. Naturalmente, tutto in nero. Anche per chi ha i documenti in regola. Una situazione che l’organizzazione internazionale ‘Medici senza frontiere’ definisce “spaventosa”. Subumana. “Sono da poco tornato dalla Piana di Gioia Tauro - dice a ‘Famiglia musulmana’ Gianluigi Lopes, addetto stampa di ‘Medici senza frontiere’ - A vivere lì ci si ammala di sicuro. Il freddo e il cucinare e dormire in spazi non areati influisce considerevolmente sull'insorgenza di infezioni alle vie respiratorie. Le difficili condizioni di vita e di lavoro portano invece a patologie gastroenteriche e osteomuscolari. Per questo – aggiunge - abbiamo distribuito 1500 kit igienico-sanitari (kit contenente sapone, sacco a pelo, spazzolino e dentifricio) per garantire un minimo di assistenza”.
Fino a poco tempo fa le cose andavano anche peggio. Mancavano luce, acqua, bagni e l’immondizia era da tutte le parti. “A dicembre – dice Gianluigi Lopes - Medici senza frontiere ha girato un filmato per denunciare una situazione tanto precaria, riferibile a una crisi umanitaria come non era mai accaduto in un paese del G8. Un video che ha fatto il giro del mondo, ripreso da Bbc, Al Jazeera, Reuters, da alcuni media francesi e spagnoli e da quasi tutti i media italiani”. Poi, sempre nel mese di dicembre, la vicenda dei due ventenni ivoriani feriti da proiettili di pistola sulla strada che porta da Rosarno a San Ferdinando e che ha spinto alcune centinaia di immigrati a manifestare (pacificamente) per le vie di Rosarno. Infine, gli appelli della Croce Rossa, delle associazioni cattoliche, dei movimenti cittadini della zona e di Medici senza frontiere. Fatti che hanno sensibilizzato la Regione Calabria (“Bisogna umanizzare una realtà intollerabile su cui in tanti per troppo tempo hanno chiuso gli occhi”, ha detto il governatore Loiero in un comunicato stampa diffuso in quei giorni), che ha provveduto a predisporre servizi igienico-sanitari indispensabili. “Abbiamo chiesto alle istituzioni locali - dice Gianluigi Lopes di ‘Medici senza frontiere’ - di allestire servizi per migliorare le condizioni di vita di queste persone. Qualcosa è stato fatto in questi giorni: sono stati messi bagni chimici, taniche per la distribuzione d’acqua ed è stata raccolta la spazzatura. Un intervento giunto, secondo noi, in ritardo – conclude - visto che sono almeno dieci anni che tutto ciò si ripete e che, dunque, sarebbe programmabile e gestibile in termini di accoglienza”.

Occhipinti (Lucky Red): “Doppiaggio The Millionaire solo errore tecnico”


di Italo Mastrangeli
(da Famiglia Musulmana di marzo)

Roma – L’aereo in partenza e pochi minuti a disposizione. Ma Andrea Occhipinti, fondatore, proprietario e amministratore della Lucky Red, una delle più importanti case cinematografiche italiane, non ha voglia di lasciarsi sfuggire l’occasione per ribadire, una volta per tutte, che l’errore fatto durante il doppiaggio del film vincitore di otto premi Oscar, ‘The Millionaire’, è stato solo frutto di un errore tecnico. E che non è mai stata loro intenzione mettere in cattiva luce i musulmani d’Italia. “Siamo molto dispiaciuti per l’incidente – ha detto a Famiglia musulmana - ma desidero minimizzare la cosa: si è trattato solo di un errore in fase di missaggio. Non c’è stata intenzionalità, né malafede. Non volevamo danneggiare nessuno. Del resto – ha aggiunto Occhipinti - la storia della Lucky Red parla chiaro: da venti anni distribuiamo film di tutto il mondo, abbiamo coprodotto un film palestinese e il primo film afghano, Osama. Abbiamo distribuito diverse tipologie di film e ricevuto spesso complimenti da parte del mondo musulmano per l’attenzione mostrata nei confronti di pellicole provenienti da quella cultura”. L’errore di traduzione - avvenuto nella sequenza in cui la madre di uno dei protagonisti viene presa a bastonate da un gruppo di fondamentalisti indù - sarebbe stato prodotto dal caos della scena, fatta di frasi concitate, urla, grida e brusii di fondo. “Nella versione originale del film – ha detto Occhipinti - la scena è sottotitolata in inglese ma i dialoghi sono in indi. Per questo abbiamo chiamato una donna indiana per tradurre ciò che la folla diceva nel film. Nei sottotitoli c’è una sintesi di quei dialoghi, dove compare solo la scritta ‘They are muslims, get them’ (‘Sono musulmani, prendeteli’) mentre le altre voci non ci sono nei sottotitoli. Nel doppiaggio invece abbiamo tradotto anche le altre voci. Nel missaggio l’esclamazione ‘prendeteli’, cioè quella che ha fatto nascere l’equivoco, è scomparsa, nascosta dal rumore della folla. Comunque- ha concluso- la cosa che mi sembra fondamentale è che il protagonista del film, quando parla di questo episodio, si riferisce alla drammaticità di tutte le guerre di religione, tra l’altro ricorrenti in India. Ma non si riferisce ad alcun fatto specifico, tantomeno, come qualcuno ha detto, agli avvenimenti del ‘92”. Dalle parole ai fatti. La Lucky Red ha comunque deciso di sostituire tutte le copie di ‘The Millionaire’ sparse nelle sale cinematografiche della Penisola, con la versione corretta del doppiaggio. “Giovedì – ha detto - abbiamo finito di stampare le nuove copie e venerdì le abbiamo iniziate a distribuire, prima nei cinema delle grandi città, poi nelle sale di provincia. Penso a breve tutto sarà a regime”.

Il pugile romeno che combatte in piazza Montecitorio



Roma, 12 feb 2009 - Non sono stati i pugni presi sul ring i peggiori che ha dovuto incassare l’ex peso gallo romeno Tiberiu Paul Chiriac. In tredici anni d’Italia, con gli ultimi nove passati esclusivamente nel Bel Paese, dentro e fuori il mondo della boxe, ne ha viste di cotte e di crude e pagato sulla propria pelle il fatto di essere un cittadino di serie B, un romeno. Vittima del razzismo e del mutismo della società. E così a trentasei anni suonati Tiberiu continua a infilarsi i guantoni e a combattere, ma non su di un ring. A meno che non lo piazzino a piazza Montecitorio. Perché è lì, sotto all’obelisco di fronte al Parlamento, che da un paio d’anni staziona Tiberiu. Chiede che almeno la politica faccia qualcosa affinché trionfi la giustizia, che gli siano restituiti se non i soldi almeno l’onore e la dignità che gli sono dovuti e che coloro che gli hanno rovinato l’esistenza paghino. A costo di rimetterci le penne.

Intorno all’obelisco Tiberiu ha piazzato decine di cartelli, ritratti di Cristo e dei santi, e gigantografie di pagine di giornali che hanno raccontato la sua storia, come il ‘Corriere della Sera’, ‘Il Tempo’ e la ‘Gazeta Romaneasca’, free press per i ‘romeni de Roma’. Perfino su You Tube c’è un filmato con una sua intervista rilasciata l’estate scorsa. In pochi mesi da allora sembra sia invecchiato di dieci anni."Non c’è solo Calciopoli, la mafia è dappertutto", dice Tiberiu raddoppiando tutte le consonanti come fanno i sardi. Lui che col suo metro e sessanta nemmeno, e la sua tigna, sardo lo sembra per davvero. "Non sono qui per soldi – prosegue – ma perché voglio giustizia. Voglio che ciò che è successo a me non capiti ad altri, romeni o polacchi che siano. In Italia sono stato sfruttato, trattato come uno schiavo. Ho combattuto incontri accomodati senza che ne sapessi niente e per quelli non sono stato nemmeno pagato. Per campare ho lavorato nell’edilizia e combattuto centinaia d’incontri, col pubblico e senza…".

La prima volta di Tiberiu Paul Chiriac in Italia risale al ’96 quando un manager italiano gli organizzò un incontro. Tiberiu non era un novellino nonostante avesse 23 anni e aveva già combattuto in Francia e Bulgaria. Da allora fino al 2000 disputò una decina d’incontri nello Stivale, match che, dice Tiberiu, vennero accomodati. "O perdevo ai punti oppure gli arbitri fermavano il match prima del gong dando la vittoria al mio avversario per ko tecnico anche quando non m’ero fatto niente e stavo ancora bene in piedi. E dagli organizzatori non ho mai ricevuto una lira". Tiberiu voleva già all’epoca che tutti i filmati disponibili venissero visionati, per questo era andato a raccontare la sua storia prima a polizia, carabinieri e Guardia di finanza, poi alle Procure di Roma e Perugia e infine al Coni. Ma nessuno gli aveva dato retta. Anzi. "Invece di fare giustizia – racconta - mi hanno pure tolto il permesso di soggiorno. Pensa che nel novembre del 2000 venni premiato dal mitico Nino Benvenuti, ed ero già un clandestino".

Dal 2000 Tiberiu fa tappa fissa in Italia. Nonostante fosse un clandestino partecipava a molti incontri, alcuni ufficiali; in altri invece faceva da sparring partner a pugili ancora da svezzare. Di altri non ne parla. Ma i soldi che girano nel pugilato sono pochi, anche per i "primattori", figurarsi per "le comparse". Così per sbarcare il lunario andò a lavorare in cantiere, come facevano (e fanno) un po’ tutti i romeni approdati sulla Penisola. Tutto in nero naturalmente e per di più trattato come uno schiavo, un paria. "Spero sempre che qualcuno si interessi alla mia causa e per questo mi aiuti". Ora, l’aiuto Tiberiu lo cerca in quei romeni che in Italia hanno fatto fortuna, come i calciatori Mutu e Chivu. "Adrian Mutu e Christian Chivu aiutatemi a sconfiggere il razzismo nello sport", ha scritto in uno dei cartelli. Di Ramona Badescu (che lavora fianco a fianco col sindaco Alemanno) invece non vuol sentir parlare: "Lei non ci rappresenta (a noi romeni) e dunque non può parlare per noi. Che ne sa dei nostri problemi?".

Tiberiu oggi non è più un pugile. "Sono vecchio", dice. Piazza Montecitorio è il posto che assomiglia di più a casa. Qui, tutti lo conoscono, sanno qual è la sua situazione e perché lotta. Forse per questo suscita simpatia. Un signore in livrea gli chiede se vuole un caffè. Tiberiu, cortesemente, rifiuta l’invito. Ha da fare gli dice, deve mettere a posto i cartelli e infilarsi la maglietta per la foto. "È la mia maglietta, sai, l’ho fatta fare apposta. Eccola". La mostra. C’è disegnata una colomba bianca con una freccia infilata nel cuore, il rosso vivo del sangue che cola. Sopra, la scritta: "uccidetemi", a caratteri cubitali. "Una volta – dice – hanno provato a portarmi via di qui con la forza. Io allora ho preso la tanica di benzina che avevo e ho fatto il gesto di darmi fuoco. Vuoi sapere se lo avrei fatto?". Silenzio. "Sì".

Italo Mastrangeli (pubblicato su Lungotevere.Net)

Famiglia Musulmana, compie un anno il giornale che parla ai musulmani in italiano


Intervista all’editore Nizar Ramadan: "Conoscersi per rispettarsi"



Roma, 4 feb 2009 - "Da quando sono in Italia ho appreso che se la montagna non va da Muhammad (pace e benedizioni su di lui), Muhammad va alla montagna". Nizar Ramadan pronuncia questa frase con un sorriso sornione alternando l’italiano all’arabo mentre è nel suo ufficio al primo piano di una palazzina sulla Cassia dove ha sede la redazione di ‘Famiglia musulmana’, il primo e finora solo prodotto editoriale che parla ai musulmani sparsi in Italia usando unicamente la lingua di Dante. "Una lingua straordinaria" dice Ramadan, che di ‘Famiglia musulmana’ ne è ispiratore ed editore. Ed è tra queste stesse mura che prese forma un anno fa questo piccolo miracolo giornalistico, un mensile free press di sedici pagine a colori stampato in 10mila copie e distribuito principalmente davanti alle moschee della Penisola.

Famiglia MusulmanaNizar Ramadan è uomo di trentanove anni con gli occhi fieri di chi è soddisfatto di ciò che finora ha fatto senza esserne pago. Desideroso di andare incontro alle nuove sfide che gli si presenteranno nel prosieguo del cammino, sempre che Allah gli conceda il tempo e la grazia di farlo. Come il cognome lascia intendere, Ramadan è musulmano, ma non bisogna pensare che chi scrive su ‘Famiglia musulmana’ lo sia. Anzi. Se non è il solo in redazione poco ci manca, visto che gli altri (una trentina circa tra redattori e collaboratori) sono quasi tutti cristiani o laici. Ramadan ha un doppio passaporto, italiano e libanese. Una condizione che, dice, gli permette di guardare la realtà da due punti di vista e di prendere ciò che ritiene più bello. Il Libano è la sua terra d’origine ma è molto fiero della sua italianità. Del resto in Italia ci vive da circa 24 anni. Non che sia stato fermo un attimo: ha avuto la possibilità di girare il mondo, di guardare cosa c’è sotto la scorza che lo ricopre, e capire che se nella vita vuoi fare qualcosa di buono non puoi fare da spettatore ma devi scendere dal pulpito, rimboccarti le maniche e andare alla montagna. Il resto è tempo sprecato.

La ‘World Communication’ è la società fondata da Nizar Ramadan, si occupa di relazioni con il pubblico e fa da ufficio stampa per diversi enti pubblici. ‘Famiglia musulmana’ è l’ultimo prodotto editoriale nato alla ‘World Communication’, un giornale no profit. Non perché agli inserzionisti il giornale non interessi quanto per una precisa scelta dell’editore. "E un giornale - dice Ramadan - rispecchia sempre il suo editore. Famiglia musulmana – spiega - è un giornale etico, scientifico ed educativo che vuole creare partecipazione, dialogo, confronto. Andare a fondo nelle cose. Se fosse solo una questione di business sarebbe pieno di pubblicità e le assicuro che sono bravo a rimediare sponsor". ‘Famiglia musulmana’ mette la comunità musulmana di fronte ai suoi limiti. Che sono principalmente tre, come spiega Ramadan: "Negli ultimi decenni ho assistito molte volte a trasmissioni tv in cui vengono invitate persone che parlano di islam senza saperne nulla, signori che conoscono poco l’italiano e che sviliscono la religione usando quelle due parole che hanno imparato a sproposito. Così non va. I limiti che abbiamo sono sotto gli occhi di tutti. In particolare: la scarsa conoscenza della religione musulmana, la poca confidenza con la lingua italiana e la presunzione di parlare per conto dei musulmani. Ciò crea disinformazione e i primi colpevoli sono i musulmani stessi. Proprio per questo – aggiunge - noi di Famiglia musulmana siamo fieri di aver scelto di scrivere il giornale in italiano. Inoltre noi musulmani in Italia non abbiamo giornali in italiano".

Secondo Ramadan non c’è alcun buon motivo per non usare l’italiano nel sermone del venerdì come auspicato nei giorni scorsi dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Occorre distinguere innanzitutto – spiega - tra il momento della preghiera, che si svolge cinque volte al giorno e che deve essere recitata esclusivamente nella lingua della Rivelazione, cioè l’arabo, ed il sermone del venerdì, che ha una finalità educativa, oltre che in materia teologica, anche in materia etica e sociale, e deve quindi essere pienamente comprensibile all'insieme dei credenti, così come ha voluto il nostro Profeta, per istruirli ed integrarli nella società e renderli partecipi della vita nel senso più pieno. Il problema casomai è un altro, ed è che la gente musulmana parla ma non legge in italiano. Per questo Famiglia musulmana ha un ruolo strategico per tutti i musulmani. Mi piacerebbe però che ce ne fossero altri di prodotti editoriali così. E’ tempo che la gente smetta di nascondersi. La nostra prima generazione ha commesso degli errori, si è chiusa su se stessa. Ora siamo alla seconda generazione e abbiamo il dovere di renderla partecipare e coinvolgerla in modo sano. Non più una religione insegnata col bastone come nelle presunte scuole coraniche. È necessario invece aiutare la gente a capire e comprendere. Perché finora non lo si è fatto? Nelle traduzioni non ci vedo niente di sbagliato. Se non le si fanno è solo per paura. Intendiamoci: non dobbiamo fare traduzioni a vanvera altrimenti rischiamo di trasmettere concetti astratti diversi dal "fiqeh" (giurisprudenza). Basta osservare quello che accade in alcuni paesi per rendersi conto di come alcune traduzioni siano pessime e portatrici d’interessi politici".

‘Famiglia musulmana’ non si occupa solo di temi religiosi e di etica. Ampio spazio è dato ai problemi che i musulmani possono incontrare ogni giorno: dal lavoro ai rapporti con le istituzioni, insomma: la quotidianità. E poi c’è spazio per la cronaca nazionale e internazionale e due pagine sono sempre dedicate al dialogo con altre confessioni, in particolar modo con la Chiesa cattolica. "Famiglia Musulmana non è un giornale che parla in nome della comunità musulmana – precisa Ramadan - ma parla ai musulmani. E lo fa in modo equilibrato, comunicando delle cose che interessano a tutti noi musulmani che viviamo in Italia, spiegando come siamo, come viviamo e quello che facciamo. Per essere rispettati e rispettare dobbiamo conoscere, sapere. Trattare la quotidianità permette alla comunità di prendere coscienza della loro condizione e cercare di riparare le storture. Per questo c’è bisogno di maggiore partecipazione. Senza dialogo non c’è democrazia. L’alternativa è di finire in un ghetto. Poi pubblichiamo spesso documenti che invitano al dialogo interreligioso e alla pace. C’è sempre una o due pagine che parlano di questo. E consideri che nessuno di questi cosiddetti rappresentanti torna e spiega alla comunità di cosa si è parlato e cosa si è raggiunto".

Far crescere la comunità musulmana è un atto dovuto ma attraverso la partecipazione di tutti gli interessati, cosa che produrrebbe benefici anche alla società nel suo insieme. "Per far crescere una comunità e dunque anche lo società intera c’è bisogno di partecipazione. E se una comunità viene ghettizzata o si auto-ghettizza diventa un corpo che rallenta la società nel suo insieme. Noi musulmani, purtroppo, non abbiamo un giornale che rappresenti l’opinione della comunità. Ma la colpa è solo nostra. Significa che non si è voluto partecipare e senza partecipazione si resta indietro e si perde il treno. Anche per questo – prosegue Ramadan – la comunità musulmana è chiamata doverosamente alla costruzione di giornali in lingua italiana. E anche le istituzioni italiane dovrebbero rivolgersi alla comunità con materiale informativo rendendola più partecipe" (Famiglia musulmana non riceve alcun contributo dal fondo per l’Editoria, ndr). Un documento pubblico che aiuta i giovani ad apprendere l’etica della religione da fonti sicure, per scongiurare il rischio che si creino delle sette all’interno del sistema. Per questo motivo il compito sociale di questo giornale è molto grande".

Italo Mastrangeli (pubblicato su Lungotevere.Net)