giovedì 30 aprile 2009

Cittadinanza, un miraggio per 400mila nati in Italia


di Gianluca Schinaia
(da Focus Immigrazione 239 - Uil)

Roma, 20 aprile 2008 - Nascere e crescere in una nazione, senza esserne cittadini. Sono circa 398mila i ragazzi nati in Italia da famiglie di stranieri che hanno scelto il nostro Paese come luogo di emigrazione. La legge che disciplina l'acquisizione della cittadinanza italiana è la 91 del 1992. Nonostante il fatto che la normativa sia stata approvata relativamente di recente, secondo gli esperti l'impianto legislativo non ha tenuto conto dell'emigrazione di massa di questi ultimi anni ed è stata basata sul principio dello ius sanguinis: la cittadinanza italiana si acquisisce in base al luogo di nascita di uno dei genitori. «Sostanzialmente – afferma Ennio Codini, professore di diritto pubblico all'università Cattolica di Milano ed esperto della Fondazione Ismu – la 91 del '92 somiglia alle leggi che c'erano prima: una revisione, neanche innovativa, di quanto era previsto dal codice Napoleonico». Al riguardo dell'acquis del diritto, diverse sono le modalità per gli immigrati che arrivano e per i figli di stranieri che nascono e risiedono in Italia. Per diventare "italiani" gli stranieri extracomunitari devono trascorrere almeno dieci anni nel nostro Paese, una durata che presuppone una residenza continua e riconosciuta dalle autorità. Invece, sia in Francia che nel Regno Unito, l'acquisizione della cittadinanza per gli extracomunitari scatta dopo solo cinque anni di residenza, ma in entrambi i Paesi la provenienza dello straniero da un'ex colonia riduce ulteriormente i tempi. D'altra parte, la Svizzera e la Germania adottano dei regimi restrittivi simili a quello nostrano. Nella Confederazione elvetica l'extracomunitario deve aspettare dodici anni per diventare cittadino svizzero, mentre in Germania gli anni sono otto. In tutti gli Stati considerati – compreso il nostro – una volta esauditi i termini per ottenere la residenza bisogna sostenere un esame sulla lingua e sulla cultura del Paese di arrivo, al fine di testare il livello di integrazione, e a quel punto termina la procedura per la cittadinanza. Per quanto concerne invece le seconde generazioni, ovvero i figli degli immigrati extracomunitari, la regola italiana è basata sullo ius sanguinis. Il problema nasce quando si è figli di genitori extracomunitari. «In questo caso, uno dei più diffusi, la cittadinanza si ottiene al diciottesimo anno d'età – continua Codini – ma è necessaria la residenza ininterrotta durante l'intero periodo». Codini fa il raffronto con la Francia. «Nell'Esagono, il termine per l'ottenimento scatta a 16 anni e basta che gli anni di residenza siano stati 11». Una questione non da poco, visto che sono moltissime le storie italiane di ragazzi che perdono il diritto alla cittadinanza solo per aver trascorso, in 18 anni, qualche mese all'estero. In Germania, esiste la regola dello ius soli ma per la cittadinanza ci vogliono almeno otto anni di residenza continua di uno dei due genitori. E per acquisire la cittadinanza inglese, a un ragazzo nato nel Regno Unito basta la residenza permanente del padre o della madre. Secondo Codini, l'unico aspetto favorevole per un extracomunitario in Italia nella disciplina sulla cittadinanza è l'acquis matrimoniale. «In realtà - prosegue – è un cimelio del codice Napoleonico, dove si stabiliva che la moglie dovesse acquisire la cittadinanza del marito. Oggi però ci sono degli abusi con i matrimoni fittizi». Nel pacchetto sicurezza – recentemente passato all'esame del Senato – si è cercato di rendere più difficile l'ipotesi del matrimonio strumentale per acquisire la cittadinanza, aumentando i termine di pregressa residenza del coniuge straniero da sei mesi a due anni. Insomma, la normativa italiana sulla cittadinanza è basata su principi anacronistici e rende la vita difficile anche ai ragazzi nati e cresciuti in Italia nell'applicazione procedurale. Codini segnala alcune idee per migliorare l'impianto legislativo: «Innanzitutto, il termine di dieci anni per l'immigrato adulto non ha senso: è uno tra i più lunghi nei Paesi occidentali». Quindi, la questione della verifica. «In Italia c'è un esame dove la Prefettura ha la più ampia discrezionalità sulle domande e che si basa sulla dichiarazione dei redditi del richiedente: suggerirei criteri intellegibili e non dovrebbe essere più valutata la busta paga, come invece avviene oggi». Per quanto riguarda, infine, le seconde generazioni Codini sconsiglia l'applicazione dello ius soli puro. «Ma forse bisognerebbe ispirarsi al sistema francese: 16 anni, regola dell'adempimento scolastico e meno rigidità sul criterio della residenza continua».

Nessun commento:

Posta un commento