giovedì 30 aprile 2009
Immigrazione: gli effetti dalla crisi ed alcune risposte possibili
di Giuseppe Casucci (Responsabile Uil Immigrazione)
La crisi economica e finanziaria che sconvolge le economie del pianeta colpisce duramente la domanda di beni e servizi, quindi la loro produzione ed inevitabilmente il mercato del lavoro.
L’Oil calcola che l’attuale depressione dell’economia mondiale distruggerà – solo nel 2009 - complessivamente 52 milioni di posti di lavoro (e la stima è per difetto), a causa del crollo della domanda in comparti come quello energetico, quello manifatturiero, le costruzioni ed i servizi alla salute. Tutti settori che hanno funzionato negli ultimi anni da calamita per i lavoratori migranti.
Conseguentemente, dicono gli osservatori, gli immigrati sono i primi a pagare un prezzo salato per questa crisi. Secondo alcuni esperti consultati dalla rivista americana Newsweek, il flusso di migranti dal Sud verso il Nord del mondo potrebbe ridursi del 30% già quest’anno. Joseph Chamie, ex capo della divisione “popolazione”, delle Nazioni Unite, ha dichiarato che il flusso in uscita dei migranti caratterizza già la situazione in diversi Paesi, tra cui Spagna, Irlanda, Repubblica Ceca, gli Emirati Arabi Uniti e gli USA, il Giappone, l’India e la Cina. Per l’esperto, che prevede il licenziamento di milioni di migranti in tutto il mondo, “si assiste oggi ad un rovesciamento nelle tendenze migratorie, un fenomeno destinato a durare quanto la crisi.
Sempre secondo l’OIL, la crisi nei settori chiave della produzione mondiale potrebbe portare al dimezzamento del numero di migranti nei settori petroliferi e delle industrie dell’indotto (con la perdita di 7 milioni di posti di lavoro stranieri). In Giappone anche a causa della crisi della Toyota – negli ultimi 4 mesi – decine di migliaia di immigrati brasiliani hanno perso occupazione e casa (in quanto fornita dall’azienda). Una parte di loro è già tornata in patria, altri dormono nelle chiese e nei parchi, e aspettano che lo Stato gli offra il costoso viaggio di ritorno.
In Malesia, 200 mila lavoratori hanno già perso il lavoro, metà dei quali migranti. Nel frattempo in Cina, circa 20 milioni di contadini stanno ritornando nelle campagne, dopo anni di lavoro in fabbrica in grandi città come Shandong, Dongguan e Shangai. Un simile fenomeno, raccontano gli esperti OIL, sta accadendo in India dove decine di industrie urbane chiudono i battenti.
E per tornare in Europa, sappiamo di migliaia di migranti marocchini che quest’anno non hanno trovato lavoro nelle campagne della Castiglia ed Andalusia, in quanto gli spagnoli sono tornati a fare il mestiere di raccoglitore d’olive abbandonato da anni. In Irlanda, secondo l’Economic Social Research Institute, 30 mila lavoratori stranieri hanno già lasciato il paese a causa del periodo di depressione dell’economia.
Negli USA, dove oltre 11 milioni di migranti vivono in condizioni di irregolarità, tra il 2000 ed il 2006 circa un milione di messicani l’anno hanno attraversato il confine con l’America. Nel 2008, però, si è già registrata una forte riduzione negli arrivi ed oggi gli esperti predicono un calo del 40% nei nuovi ingressi ed il ritorno a casa di almeno un milione di persone.
Anche da noi in Italia accadono fenomeni simili, anche se finora meno vistosi. Nel triveneto la chiusura di molte piccole e medie aziende, la messa in cassa integrazione, la dislocazione di attività produttive all’estero, hanno colpito duramente l’economia locale e prodotto la perdita del lavoro di migliaia di persone, soprattutto stranieri. La stessa cosa succede in tutte le regioni padane e nello stesso Piemonte colpito duramente dalla crisi della Fiat e del suo indotto. Molti italiani cominciano a riconsiderare la necessità di tornare a fare lavori abbandonati da tempo, se è vero ad esempio che la domanda di formazione in badantato ha registrato recentemente un boom nelle iscrizioni da parte di italiani in Veneto e Lombardia. Anche nel resto d’Italia, la crisi nella domanda di abitazioni ha prodotto un rallentamento della domanda di lavoro nel settore delle costruzioni, così in settori produttivi ma anche di servizi come il commercio ed il turismo fortemente provati dalla depressione dell’economia.
La conseguenza è visibile anche sul piano dei soldi mandati a casa. Negli ultimi dieci anni, le rimesse avevano spiccato il volo da 73 miliardi di US$ al record di 337 miliardi di US$ nel 2007, sorpassando di gran lunga il volume delle risorse destinate dai paesi ricchi in termini di aiuti allo sviluppo del Terzo Mondo (dati della World Bank). Un aspetto importante se si tiene conto che oggi le rimesse rappresentano il 45% del Pil del Tajikistan, il 38% dell’economia della Moldavia ed il 30% di quella dell’Honduras, per fare alcuni esempi.
Oggi ci sono chiari segnali di un significativo calo delle rimesse. Già nel 2008 il volume globale è sceso a 283 miliardi di US$. Secondo il FMI nel 2009 il calo potrebbe essere di un ulteriore 30%. L’effetto sulle economie di molti Paesi poveri potrebbe essere devastante perché, assieme al calo di rimesse si potrebbero aggiungere migliaia di senza lavoro che ritornano a casa. I governi di Moldavia ed Ucraina paventano già il rischio di collasso delle proprie economie. Lo stesso Messico – che dichiara di ricevere 23 miliardi di US$ in rimesse l’anno – parla di tsunami economico, visto che le rimesse rappresentano la seconda fonte di moneta estera pregiata.
Non c’è dubbio che la crisi è anche la causa delle maggiori insofferenze verso gli stranieri registrate in molti Paesi ospiti, con un irrigidimento delle normative, la richiesta di sospensione dei flussi d’ingresso (non solo da noi in Italia, ma anche in paesi come Spagna, Inghilterra, ad esempio), fino ad arrivare ad episodi di aperta xenofobia. Il razzismo non è quasi mai un fatto puramente ideologico, ma spesso il prodotto di processi economici e sociali a cui le classi dirigenti non hanno potuto (o voluto) dare risposte per tempo.
E’ vero in Italia, dove il governo dell’immigrazione è latitante da sempre, ma è vero anche in Europa. A novembre scorso, un survey realizzato dalla tedesca Marshall Fund – su di un campione rappresentativo di molte migliaia di intervistati – ha dato risultati sorprendenti: l’80% dei cittadini intervistati in Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Olanda e Polonia, ha richiesto più stretti controlli alle frontiere, mentre il 73% chiedeva sanzioni più dure per i datori di lavoro che assumevano migranti irregolari. Un survey più recente – citato la scorsa settimana dal Financial Times – riportava che oltre il 70% dei cittadini europei intervistati riteneva giusto il ritorno in patria anche degli immigrati regolari che perderanno il lavoro.
E’ certo ingeneroso da parte degli europei chiedere a persone straniere, magari radicate da anni in Europa, di abbandonare di colpo tutto e tornarsene a casa. In effetti la crisi gioca pesante sull’umore e la fiducia nel futuro dei nativi nell’Europa dei 27, e produce anche soluzioni poco praticabili ed in parte illogiche. In effetti, se si guarda al medio lungo periodo, tutti i demografi sono concordi nel dire che l’Europa (ma soprattutto l’Italia) continuerà ad aver bisogno di nuovi immigrati, a causa del declino demografico che – stante le cose continuerà anche nei prossimi decenni. Per mantenere positivo il bilancio demografico in Italia, la richiesta , dicono gli esperti, nonsarà inferiore ai 400 mila immigrati l’anno.
Ma intanto nel breve e medio periodo la crisi va in direzione opposta e molte migliaia di immigrati diventano superflui in termini lavorativi. Cosa fare perché la situazione non precipiti in gravi lacerazioni sociali? Questa situazione produrrà molta disoccupazione tra gli italiani e tra gli immigrati. Questi ultimi, a causa dell’attuale legge in vigore, dopo sei mesi dal licenziamento, perderanno anche il diritto a restare in Italia. In parte chi ha famiglia, manderà moglie e figli a casa in attesa di tempi migliori, rimanendo in Italia in condizione di irregolarità.
Molte stime parlano di una cifra di irregolari già vicina al milione di persone, che stante la situazione è destinata ad aumentare velocemente, andando ad ingrossare le fila di quelli impiegati nel sommerso, in una condizione di quasi assenza di diritti. Questa situazione aumenta l’effetto di dumping sociale che una parte così ricattabile della manodopera esercita nel confronto del resto delle forze lavoro. Se non si mette mano a questa situazione, l’insofferenza degli italiani verso l’immigrazione, e gli stessi episodi di xenofobia sono destinati ad aumentare.
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